Mi svegliai prima del solito quel giovedì di ottobre, volevo muovermi presto da casa perché intendevo passare da un'amica a prendere un caffè prima di iniziare a lavorare e la presenza del sole confermava piacevolmente la mia scelta. Abitavo a circa un chilometro dal posto di lavoro che potevo raggiungere con un mezzo pubblico ma solitamente preferivo andarci a piedi. Il percorso era sempre lo stesso ed erano ormai quasi due mesi che lavoravo in quello studio. Oltre ad assistere il dottore mi venivano spesso affidate commissioni esterne che svolgevo con piacere. Mi veniva chiesto di depositare del denaro in banca, di pagare bollette, di ritirare o spedire pacchi, a volte facevo anche la spesa ed io ero contenta di poter andare in giro, specialmente nelle belle giornate, anche se le code infinite che mi toccava affrontare all'ufficio postale o in banca non mi piacevano affatto.
Avevo così iniziato a familiarizzare con i negozianti, con i dipendenti di altri uffici ed ero diventata in breve tempo un volto noto a parecchie persone che ogni giorno salutavo cordialmente. Ero l'assistente di uno dei dentisti più famosi della città e questo spesso mi concedeva alcuni privilegi. Venivo accolta e trattata con riguardo e solerzia cosa che mi impressionava molto e mi gratificava. Da quando lavoravo in quello studio vivevo esperienze sempre nuove e stimolanti. Ero giovanissima ed inesperta e questo mi rendeva spesso nervosa in situazioni nuove che immancabilmente si presentavano. Era naturale trovarsi di fronte a cose mai viste o mai sperimentate, ero in una fase di apprendistato ed era piuttosto frequente la novità e l'esame da superare.Fino a quel momento me l'ero sempre cavata a pieni voti ma arrivò un giorno in cui mi chiesero di fare una cosa nuova. Non fu un caso probabilmente, che mi affidassero quel compito dopo un po' di "rodaggio", sicuramente avevano preventivato la possibilità che sarei scappata a gambe levate se la proposta mi fosse stata fatta durante i primi giorni di prova.
Ricordo che arrivai in studio gioiosa e felice di aver preso il caffé con l'amica e chiacchierato allegramente. Quel giorno in studio non c'era molto da sistemare perché avevo provveduto la sera prima riordinando minuziosamente ed avevo completato anche la pulizia dei cassetti. Ero convinta che la giornata sarebbe proseguita con la stessa allegria che aveva dato l'avvio ma il volto serio della collega che mi veniva incontro mi fece immediatamente presagire che non sarebbe andata esattamente così.
Mi disse che era arrivato il momento di pulire l'aspiratore a colonna che normalmente provvedeva lei ad igienizzare ma che dada quel giorno dovevo prender in carico visto che ormai lavoravo da un tempo sufficiente per farlo. Mi consegnò guanti, mascherina ed occhiali e mi invitò a seguirla per ricevere istruzioni.
Mentre raggiungevamo l'apparecchio mi spiegava che periodicamente bisognava controllare il boccione per evitare che si bloccasse e che la pulizia doveva essere eseguita con la massima attenzione. Questi preliminari fecero crescere in me preoccupazione ed ansia e mentre lei parlava continuavo a pensare alla parola "boccione". Non riuscivo proprio a capire cosa potesse essere e soprattutto dove si celasse questo aggeggio.
Fino a quel momento avevo aspirato sangue e saliva senza preoccuparmi minimamente del meccanismo con il quale veniva effettuata quella operazione. La cannuccia (poi scoprii che si chiamava cannula...) che utilizzavo nella bocca del paziente era collegata ad un lungo tubo flessibile che finiva dentro una specie di mobiletto di metallo, alto un metro circa, che spostavamo da un riunito all'altro secondo necessità essendo dotato di rotelle.
Questo "boccione" di cui parlava la collega non riuscivo proprio a pensare dove potesse trovarsi e non riuscivo ad immaginarlo.
Così, meditando e camminando arrivai di fronte all'aspiratore. La collega allungò la mano verso un pomello minuscolo ed in quel preciso istante mi accorsi dell'esistenza di uno sportello sul lato posteriore dell'aspiratore a colonna. Spalancò l'antina e vidi cose c'era al suo interno.
Una serie di tubi e cavi elettrici e, cosa che mi fece inorridire, una boccia enorme di vetro con dentro un liquido grigiastro. Ovviamente capii subito di cosa si trattava e fu in quel momento che la preoccupazione diventò evidente orrore sul mio volto. La collega mi fece vedere come smontarlo e poi mi invitò a portare il boccione nel bagno di servizio per svuotarlo nel wc e poi ripulirlo a fondo e disinfettarlo. Il momento in cui arrivai in bagno ed aprii il boccione per versarne il suo contenuto non lo dimenticherò mai. Un fetore pazzesco inondò la stanza piccolissima in cui dovevo svolgere l'operazione ed il boccione che pesava tantissimo era liscio quindi temevo potesse scivolarmi allagando la stanza ma soprattutto colpendo me stessa. Mi veniva da piangere combattendo tra paura e disgusto, tra sgomento e rabbia per aver scelto di lavorare in questo settore; ad ogni modo portai a termine il mio compito. Ripulii a fondo il boccione, disinfettai con un prodotto che aveva preparato la collega e ritornai in studio. La collega osservò la mia espressione stravolta e mi disse: " Non preoccuparti, anche a questo ti abituerai presto. Ad ogni modo non devi farlo tanto spesso". Il solo pensiero di doverlo rifare mi faceva venire voglia di abbandonare quel lavoro seduta stante ma dovevamo proseguire le attività, i pazienti erano arrivati e la giornata era fitta di appuntamenti quindi iniziai lentamente a dimenticare la brutta esperienza.
Ogni tanto ritornavo con il pensiero a quel momento ma quel giorno avevamo tanti bambini in giro per lo studio che ben presto mi fecero ricordare il motivo per cui non potevo lasciare quel lavoro.
Mi piaceva molto il mio ruolo, il modo in cui mi vedevano i pazienti, il modo in cui mi facevano capire che mi apprezzavano e mi stimavano. Mi piaceva prendermi cura di loro attraverso l'adozione di una perfetta igiene ed una parola buona insieme ad un sorriso sincero.
Pensai che fino a al momento in cui avrei dovuto svuotare di nuovo il boccione avrei valutato cosa fare. Intanto mi godevo lo sguardo ammirato di un piccolo paziente che mi mostrava un disegno realizzato per me. In una coloratissima stanza apparivano tre figure: la dottoressa, il piccolo Mario ed io che gli tenevo la mano. Mi commossi. Uscii quella sera dallo studio con lo stessa gioia con la quale ero entrata.
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